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Gli accordi prematrimoniali o in vista del divorzio

Molti ordinamenti prevedono che i coniugi possano, durante o prima di convolare a nozze, accordarsi per dare un assetto economico al loro patrimonio, in vista di un eventuale futuro divorzio. L’ordinamento italiano non prevede tali accordi e la posizione della giurisprudenza, in particolare della Corte di cassazione, è di ferma contrarietà.

La Corte ha più volte affermato la nullità, per illiceità della causa, di qualsiasi pattuizione che abbia ad oggetto la sussistenza e la misura di un futuro assegno divorzile. Questo orientamento ha trovato conferma nella sentenza n. 788 del 13.1.2017, secondo cui «gli accordi con i quali i coniugi intendano regolare, in sede di separazione, i loro reciproci rapporti economici in relazione al futuro divorzio con riferimento all’assegno di mantenimento, sono nulli per illiceità della causa, stante la natura assistenziale di tale assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo in sede di divorzio». Nella medesima sentenza i giudici di legittimità si sono peraltro espressi in modo fermo circa l’impossibilità di invalidare solo parzialmente l’accordo delle parti, affermando che la nullità di un accordo per illiceità della causa travolge l’intero negozio e non la singola pattuizione.

La dottrina, viceversa, è di diverso avviso e autorevoli autori auspicano quanto prima un’apertura di fonte legislativa verso tali pattuizioni, rilevando che esse non avrebbero ad oggetto lo status, bensì i rapporti economici tra le parti; ragion per cui, mentre non vi sarebbe dubbio sulla nullità della convenzione con cui uno dei coniugi disponesse del diritto di chiedere la separazione o il divorzio, in quanto diritti irrinunciabili e fondamentali della persona e qualificanti il suo status, lo stesso non potrebbe dirsi con riferimento alle convenzioni che avessero ad oggetto esclusivamente il regolamento dei rapporti patrimoniali nella separazione o nel divorzio.

Nelle pronunce n. 23713 del 21.12.2012 e n. 18066 del 20.8.2014, la Corte di cassazione ha mostrato alcuni segnali di apertura. La sentenza n. 23713/2012 (relatore dr. M.Dogliotti) sembra aprire un varco nell’impostazione assunta dalla giurisprudenza. Nella sentenza n. 23713/2012 la Corte esamina un contratto stipulato tra due futuri coniugi alla vigilia del matrimonio; nel caso di separazione o divorzio, il contratto prevedeva, da una parte, l’impegno della moglie a cedere al marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo per le spese sostenute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile di proprietà della moglie; dall’altra, l’impegno ulteriore a carico del marito a trasferire alla moglie un titolo di Stato di un certo valore.

Secondo l’interpretazione data dalla Corte, queste prestazioni costituirebbero datio in solutum, cioè un pagamento eseguito dalla moglie al fine di rimborsare il marito per il denaro investito nel bene di proprietà della moglie. Si legge nel testo della motivazione che l’evento fallimento del matrimonio, cui gli effetti dell’accordo si collegano, è assimilabile ad una condizione sospensiva del contratto e non ne costituisce la causa. Partendo da questa premessa, la Corte conclude per la validità dell’accordo. Si legge, infatti, in motivazione che l’indisponibilità dei diritti del coniuge deriva dalla necessità di tutelare il coniuge economicamente più debole, situazione non ravvisabile nel caso concreto, non essendoci alcuna questione sul mantenimento, e considerata la proporzionalità delle prestazioni previste dal contratto.

L’argomento innovativo si ravvisa in quella possibile valutazione della proporzionalità delle prestazioni che, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto essere stata garantita. In questa sentenza, dunque, la Corte ha dato ampia valorizzazione anche all’interno della famiglia del principio dell’«autonomia contrattuale», secondo cui, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., «le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico», sempreché l’esercizio di questa autonomia non si traduca in una lesione di diritti ritenuti inderogabili.

A distanza di due anni da questa pronuncia, la Corte è tornata sull’argomento con la sentenza n.18066 del 2014 (relatore dr. M.Dogliotti). Dopo un excursus sulle normative dei paesi a noi vicini, in particolare Gran Bretagna e Germania, e gli effetti deflattivi che tali accordi in quei paesi hanno prodotto, i giudici di legittimità hanno posto in evidenza che «la stessa evoluzione del sistema normativo induce a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale, ferma ovviamente la tutela degli interessi dei figli minori». La sentenza prosegue affermando che all’accordo sarebbero certamente applicabili i principi generali sulla nullità dell’atto, con particolare riferimento a quelli relativi ai vizi di volontà.

E’ opportuno, infine, dare uno sguardo agli interventi del legislatore, che negli ultimi anni, con l’emanazione del d.l. n. 132 del 12.9.2014, conv. con mod. in legge n. 10.11.2014, n. 162, il cui art. 6 ha introdotto la possibilità che le parti «stipulino una convenzione di negoziazione assistita» con l’assistenza di almeno un avvocato per parte «al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio». L’effetto di questa disposizione è certamente importante: si riconosce che, con un atto di autonomia negoziale, le parti possano modificare il loro status coniugale e, sempre con il medesimo atto, possano determinare le condizioni della loro separazione e del loro divorzio senza alcun controllo giudiziale; restando affidato al P.M., laddove non vi siano figli minori o maggiorenni non autosufficienti, solo il compito di rilasciare un «nullaosta» qualora non ravvisa irregolarità nell’accordo di cui si tratta.

Se tali disposizioni non affermano espressamente la validità di tutti gli accordi in vista del divorzio, tuttavia è evidente che essi sanciscono un successo dell’autonomia negoziale e della autodeterminazione nella crisi familiare. Altrettanta valenza deve riconoscersi alla legge 20.5.2016, n. 76 sulle «unioni civili tra le persone dello stesso sesso» e «delle convivenze», anch’essa certamente espressione di un sempre più ampio riconoscimento alla valenza dell’autonomia negoziale all’interno della coppia.

Da ultimo, non si può escludere che le recenti sentenze della Corte di cassazione, rispettivamente, sez. I, n. 11504 del 2017 e sezioni unite 11.7.2018, n. 18287 entrambe concordi almeno sulla caratteristica non più assistenziale dell’assegno divorzile, possano influire sull’auspicabile mutamento di giurisprudenza anche in riferimento alla questione degli accordi in questione. Se è vero, infatti, che l’assegno non assolve (più) ad una funzione assistenziale, bensì una funzione compensativa e perequativa, tutto ciò dovrebbe implicare una più ampia considerazione anche delle scelte concordate, in «costanza di unione», dalla coppia; tale mutamento di prospettiva non potrà, a parere di chi scrive, non avere ricadute anche sulla validità degli accordi tendenti a regolare non solo fase fisiologica del rapporto, ma anche quella patologica.

 

Maria Rita La Lumia – Avvocato in Verona